lunedì 15 febbraio 2016

Il Sessantotto voleva essere orfano. Note verso il cinquantenario

Il cinquantesimo è probabilmente l'anniversario più significativo di tutti. Per un matrimonio rappresenta il traguardo delle nozze d'oro: la rappresentazione di un'unione inossidabile o, da un altro punto di vista, di una resistenza di due individui l'uno accanto all'altro di lungo periodo. Quando si parla di storia il cinquantenario costituisce l'occasione di ricostruire, decostruire se si è animati da migliori intenzioni (o banalizzare e celebrare, se invece si è animati dalle peggiori) un avvenimento, solitamente periodizzante o se non altro molto importante, i cui protagonisti sono per lo più partecipi della rimembranza. Ed in questo caso, più che di resistenza, si dovrebbe parlare di resilienza. Con questo termine si definisce la capacità di un metallo di assorbire un urto senza rompersi ed anche, per estensione, la capacità di un soggetto, o di un insieme soggetti, di superare un trauma. Un evento periodizzante costituisce in ogni caso un urto, un trauma, che ad esso si attribuisca un valore positivo o negativo poco importa. A due anni dal cinquantesimo anniversario del Sessantotto, è possibile decostruire il Sessantotto italiano (e non)? È lecito analizzare la sua natura di evento (o insieme di eventi) periodizzante? E come ci si confronta con la resilienza degli ex protagonisti di quella stagione?
Qualche anno fa l'intellettuale David Bidussa in un articolo pubblicato sul giornale digitale indipendente Linkiesta si poneva domande simili riguardo agli Settanta. Tra le altre cose, osservava come la storia di quel decennio si fosse accavallata con quella di una generazione in corso di inserimento ed affermazione nei mondi politico e mediatico, intellettuale e professionale, sottintendendo che con quella generazione, che in queste posizioni tuttora permane, bisogna fare i conti ad ogni rammemorazione. Notava Bidussa come quella stagione sia stata iper-raccontata da molti soggetti (politici, giudiziari, letterari, mediatici) ma molto poco in sede storiografica. Per lui inoltre la militanza politica dal Sessantotto in avanti non originava tanto da un complesso di bisogni quanto da un quadro emozionale e desiderante. Le riflessioni di Bidussa, che essenzialmente riguardano gli anni Settanta, si possono estendere al Sessantotto? Di certo la militanza Sessantottina aveva una decisiva componente desiderante e non nasceva da bisogni materiali, essendosi propagata innanzitutto tra la popolazione universitaria di alcune grandi città del centro-nord. E può ben dirsi che gli sforzi della storiografia sono stati fin qui insufficienti, nonostante ci sia una certa disponibilità di fonti archivistiche (si veda, ad esempio, la Guida alle fonti per la storia dei movimenti in Italia (1966-1978) pubblicata dalla Direzione Generale per gli Archivi e curata da Marco Grispigni e Leonardo Musci che avrà già quindici anni, allo scoccare del cinquantesimo). E, poco ma sicuro, è difficile per l'ultima generazione di storici e ricercatori confrontarsi con gli ascendenti ex-sessantottini, dato che se li ritrovano, resilienti, nella precedente generazione di storici e giornalisti da cui spesso dipendono e che, di solito, di Sessantotto parlano soltanto con compiaciuta laudatio temporis acti. Nella sua giaculatoria Contro il Sessantotto, lo scrittore Alessandro Bertante ha definito quegli "ex contestatori dalla memoria nostalgica […] troppo in pace con se stessi" sebbene avessero, in definitiva, incassato "una lacerante sconfitta".
È interessante notare come il termine a quo degli anni Settanta venga sempre identificato con la strage del 12 dicembre 1969 a piazza Fontana e mai con "l'anno fatidico", pur cronologicamente così vicino. Alla bomba nella Banca dell'Agricoltura si dà il ruolo di reazione alle lotte operaie del 1969, e la si ricollega alle tintinnanti preoccupazioni politico-militari di metà anni Sessanta. L'esplosione di violenza politica degli anni Settanta che, in parte, si riversa nella lotta armata, assume così l'aspetto di violenza restituita, la violenza de Il Bombarolo di Fabrizio De Andrè intenzionato a “restituire” (questo il verbo accortamente usato dal cantautore) allo Stato terrore, disordine e rumore. In questa comune visuale, il Sessantotto sembra non esserci, sembra non avere inizio e non avere fine. È un tempo lodato dunque, ma senza tempo. E anche senza luogo: di certo è da escludere il connotato della globalità, o mondialità che dir si voglia, come già al tempo del quarantesimo anniversario ha fatto il sociologo Franco Ferrarotti nel volumetto Il '68 quarant'anni dopo ricordando che pur avendo avuto risonanza mondiale quella stagione movimentista “ha riguardato le zone ricche del pianeta”; ma non bisogna guardare con troppa convinzione nemmeno a quello della transnazionalità, che appiana l'uno sull'altro movimenti profondamente diversi nelle origini, nelle motivazioni ed anche nelle richieste.
Il Sessantotto italiano nasce da un suo contesto proprio, quello della ricostruzione postbellica che sta alla base del boom economico, del centrosinistra nelle sue varie formulazioni che risolve la lunga crisi del centrismo, dell'espansione dei salari per l'espansione dei consumi, quello di un modello di benessere sempre più definito attraverso trasmissioni della RAI. Nasce da una volontà, appunto da un desiderio di militanza politica solleticato dalle prime, sostanziali celebrazioni pubbliche della Resistenza dei padri e dei nonni (in una saldatura celebrativa tra il centenario dell'unità d'Italia ed il ventennale della liberazione, come di recente ha acutamente osservato Massimo Baioni) ma smaniosa di differenziarsi dai coraggiosi ascendenti. È un Sessantotto che voleva essere orfano, come recitava uno degli slogan più incisivi, ma che ha avuto dei padri ben precisi e che dovrebbe lasciare ai suoi figli la piena libertà di studiarlo.

Nessun commento:

Posta un commento