Estate 1919. L’Italia del primo dopoguerra è scossa da un’ondata
di scioperi ed agitazioni operaie, mentre sempre più si fanno sentire le spinte
nazionaliste. In particolare, a fare molto rumore, sono le
rivendicazioni territoriali sulle regioni al confine orientale promesse
all’Italia dalle forze dell’Intesa con il Patto di Londra nell'aprile 1915.
L’accordo segreto, firmato il 26 aprile, impegnava l’esercito italiano a
scendere in guerra contro gli Imperi Centrali, durante la prima guerra
mondiale, in cambio in caso di vittoria di cospicui compensi territoriali fra
cui le province di Trento e Trieste, i territori circostanti quest’ultima e la
Dalmazia.
Con la fine della guerra, dopo
quattro anni di intensi combattimenti e milioni di perdite di vite umane, lo
scenario internazionale era mutato profondamente. I’Impero austro-ungarico dopo
la firma dell’armistizio (3 novembre 1918), si era sgretolato pezzo per pezzo,
dando vita a nuove entità statuali. Fra queste il Regno dei Serbi, Croati e
Sloveni costituito dall'Unione della Serbia con il Montenegro e con i territori
slavi del Sud dell'ex monarchia asburgica: la Carniola, la Croazia, la
Dalmazia, la Slavonia e la Bosnia. Alle trattative di pace di Versailles
i rappresentanti italiani avevano dunque faticato a far valere le proprie
pretese territoriali, dal momento che le regioni promesse non appartenevano più
a un nemico sconfitto, ma a uno degli stati vincitori che si avviava a
completare il proprio processo di unificazione nazionale. Incerto, inoltre, è
il destino della città di Fiume che a maggioranza di popolazione
italiana e dichiarata la volontà di unirsi al Regno d’Italia, era stata posta
sotto l'occupazione in una forza militare interalleata in attesa di una
destinazione definitiva[1].
Fra le voci nazionaliste che agitavano le folle italiane sull’argomento, indiscusso protagonista fu Gabriele D’Annunzio (poeta, romanziere, commediografo di grandissimo successo aveva già dominato la scena pubblica italiana durante la primavera del 1915, con infiammati discorsi
bellicisti), che descrive la sfavorita situazione italiana nella Preghiera di Sernaglia, pubblicata sul «Corriere della Sera», con la famosa metafora di «vittoria mutilata».
Una
dura espressione per rimarcare come il governo italiano non fosse fino ad allora
riuscito a far valere durante le trattative di pace gli interessi italiani e a
far rispettare il Patto di Londra. Spinto dalla volontà di voler incarnare la
figura del superuomo dei suoi discorsi, passa dalla teoria all’azione. D’Annunzio
si reca così nel settembre 1919 a Ronchi, una cittadina nei pressi di Trieste,
e si mette a capo di un movimento di ufficiali e truppe sediziosi con la quale
marcia verso Fiume. Il 12 settembre 1919 entra nella città e fa allontanare il
contingente interalleato. Il poeta costituisce così una «Reggenza» della città
e del territorio circostante, di cui si pone a capo sotto il nome di «Comandante»
e, investito di questo titolo, proclama l’annessione della città all’Italia.
Inizia così l’avventura fiumana del «vate»,
che durerà poco più di un anno, un esperimento diretto della propria filosofia del
«superuomo» in cui si mescolano estetismo, decadentismo e narcisismo. Fiume
diventa una sorta di «laboratorio» per la nuova politica della mobilitazione
delle masse, basata sul mito e la liturgia della nazione. Il «Comandante» teneva entusiasmanti e carismatici discorsi
dal balcone del palazzo del governo, incitato dalla folla sottostante che
rispondeva all’unisono, segno di come la politica a Fiume assumesse una «dimensione
totalizzante e collettiva»[2]. La città viveva «uno stato
di perdurante baccanale» a cui D’Annunzio attribuiva l’immagine simbolica di «sovrarealtà»,
ovvero di realtà superiore[3].
Nei mesi successivi, i governi liberali di
Nitti e Giolitti, tentarono di porre fine all’esperimento d’annunziano che rischiava
di provocare gravi disagi al governo italiano a livello internazionale. Nel frattempo,
la «Reggenza» si dotava di una propria Costituzione, la Carta del Quarnaro, il
cui maggiore artefice è Alceste De Ambris. La Carta era un documento molto
innovativo rispetto ai tempi poiché oltre a porre la propria l’attenzione sul
principio dell’autogestione e della valorizzazione del lavoro produttivo, proclamava
la sovranità del popolo indipendentemente da sesso, razza, lingua classe o
religione e esprimeva il diritto per tutti all’istruzione, all’educazione
fisica, all’assicurazione sulla vecchiaia, le malattie e la disoccupazione.
L’esperimento dannunziano
entrava ormai nell’inverno 1920 nella sua fase finale. Il 12 novembre 1920, Giovanni
Giolitti firmò con la Jugoslavia il trattato di Rapallo che attribuiva la Dalmazia
alla Jugoslavia con l’eccezione della città di Zara, assegnata all’Italia, e
faceva di Fiume una città libera.
Dopo un simile accordo
il governo dannunziano diveniva un grave incomodo per il governo italiano e il
suo presidente. Per questo motivo Giolitti, durante il Natale del 1920, diede l’ordine
all’esercito regolare italiano di attaccare le forze della «Reggenza», per
sgomberare Fiume e rispettare le norme del trattato. Per cinque giorni la città
fu posta sotto assedio e sotto gli attacchi delle truppe regolari italiane. Il
28 dicembre D’Annunzio decise così di sciogliere la Reggenza e uscì indenne
dalla città assieme alla maggior parte dei suoi compagni[4].
L’episodio che chiude la
breve parentesi di governo dannunziano, verrà definito dallo stesso poeta come
il «Natale di Sangue», durante il quale persero la vita ventidue legionari,
diciassette soldati italiani e cinque civili.
L'operazione, tuttavia, non pone fine alle
polemiche e l'opinione di sentimenti nazionali patriottici si convince anche di
più del fondamento dello slogan della Vittoria mutilata e ritiene che il
governo Giolitti e, in genere, i liberali non abbiano saputo difendere a dovere
gli interessi nazionali.
Dopo
questo episodio, la sorte della città di Fiume sarà segnata soltanto il 27
gennaio del 1924 con l’accordo bilaterale italo-jugoslavo definitivo, in cui
Fiume venne assegnata all'Italia eccettuato l'entroterra, e infine con i
Patti di Roma del 1927, siglati da Benito Mussolini e dal suo omologo jugoslavo
Nikola Pašić. Secondo gli accordi il Trattato veniva ratificato e il problema
fiumano veniva risolto con l'assegnazione all'Italia della città di Fiume e
alla Jugoslavia di Porto Barros.
- Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, il Mulino, Bologna 2015
- Ferdinando Gerra, L’impresa di Fiume. Dalla marcia di Ronchi all’aprile 1920, Volume primo, Longanesi & C., Milano, 1974.
- Alberto Mario Banti, L'età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi, Laterza, Bari 2009.
- Paolo Alatri, Nitti, d'Annunzio e la questione adriatica, Feltrinelli, Milano 1976.
[1] Tale richiesta era stata formulata
il 30 ottobre 1918 dal Consiglio nazionale di Fiume in forma di proclama, con
cui la città veniva dichiarata unita all’Italia «in forza di quel diritto, per
cui tutti i popoli sono sorti a indipendenza nazionale e libertà». Tale
risoluzione veniva posta «sotto la protezione dell’America, madre di libertà e
della democrazia universale». Cfr. R.
Vivarelli, Storia delle origini del fascismo: I’Italia dalla grande guerra
alla marcia su Roma, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 196; Ferdinando Gerra, L’impresa
di Fiume. Dalla marcia di Ronchi all’aprile 1920, Volume primo, Longanesi
& C., Milano, 1974, pp. 20-21.
[2] Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, il
Mulino, Bologna 2015, p. 150-151.
[3] Ibidem.
[4] Giulia Cavalieri, Il "Natale di sangue", 2
febbraio 2009 , http://natalediguerra1.blogspot.com/2009/02/il-natale-di-sangue.html.
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