Nel novembre 1918 una serie di armistizi firmati tra l'Italia più la Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia) e quel che restava della Triplice Alleanza (vale a dire Austria e Germania) pose
fine alla Prima guerra mondiale. La Grande
Guerra per quattro anni aveva mietuto milioni di vittime, tra cui circa
651.000 soldati italiani.
Il giovane
Regno d’Italia, che all’inizio del conflitto si era mantenuto neutrale, era
entrato in guerra nel 1915 sulla scia dell’entusiasmo e della sovraeccitazione
dei cosiddetti interventisti. Esisteva,
cioè, una buona fetta della popolazione italiana favorevole alla partecipazione
al conflitto e tra questi numerosi furono coloro che entrarono volontariamente
nell’esercito.
Che cosa spinse queste persone ad
arruolarsi?
Mussolini arrestato dopo aver tenuto un comizio a favore dell'entrata in guerra (11/04/1915). |
Tanti giovani, «inquieti per
mancanza di fede e tormentati dalla sete di miti»,[1]
attendevano da tempo una guerra che fosse, in un certo senso, capace di
smuovere una giovane nazione che ai loro occhi appariva immobile e decadente. Si
potrebbe dire che essi presero parte al conflitto perché influenzati dal
desiderio di «immolarsi anima e corpo ad una causa – quale che fosse – purché capace
di trascendere i meschini motivi della vita d’ogni giorno».[2] La Grande
Guerra, tuttavia, avrebbe disatteso le loro speranze e tutti, volontari e non, sarebbero
tornati alle loro case in preda alla disillusione e sconfortati dall’enorme
numero di caduti.
Lapide dedicata ai caduti di Camporgiano (LU). |
Il dramma dei soldati morti in
guerra colpì quasi ogni famiglia d’Italia. La portata del conflitto rendeva difficile
(e a volte impossibile) identificare i cadaveri o scoprire in quale luogo
fossero stati eventualmente seppelliti. Oltre a ciò, dal punto di vista dello
Stato era anche necessario affrontare l’effetto destabilizzante che un così
alto numero di morti avrebbe avuto sull’opinione pubblica. Per fare questo,
venne impiegato un nuovo “lessico della morte” fatto di lapidi, iscrizioni e opere
architettoniche che potessero offrire una sorta di riposo simbolico alla massa
dei caduti. In questi monumenti il linguaggio della morte venne sostituito da
un linguaggio di matrice religiosa: ad esempio, le vittime della guerra non
erano morti, bensì caduti. Il lutto privato poteva quindi essere trasformato in
un «cordoglio organizzato»[3] capace
di convertire il dolore e la sofferenza in un sentimento di consenso collettivo.
Capace, inoltre, di aiutare a definire l’identità di quei reduci tornati all’improvviso
alla vita normale, ma segnati per sempre nel corpo e nella mente.
Sacrario di Redipuglia, inaugurato nel 1938. |
L’inaugurazione di un «culto
della sofferenza e del sacrificio di sé»[4], che aveva
il suo simbolo nella figura dei soldati morti in guerra, fu una caratteristica che nel
primo dopoguerra accomunò tutte le nazioni, vittoriose o meno. In Italia, il
culto dei caduti fu la prima “religione della patria”, preceduta forse
solamente dalla mitologia risorgimentale. Le celebrazioni in loro onore furono sia
un’imposizione dello Stato (che così facendo voleva guadagnare consenso e
«mascherare gli orrori della guerra stessa»), sia una manifestazione di
sentimenti spontanei da parte di coloro che avevano conosciuto la tragedia
della guerra. In definitiva, quindi, la massa dei morti si trasformò da
sacrificio insensato in culto della nazione. Un culto che di lì a poco sarebbe
stato ripreso ed enfatizzato dal regime fascista, che amplificò tantissimo il
mito della guerra eroica, «atto di nascita della nuova Italia e del fascismo
stesso» che se ne fece interprete[5]. E questa
(non) è un’altra storia.
BIBLIOGRAFIA
-
Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella Prima
Guerra Mondiale, Il Mulino, Bologna, 1985.
-
Jay Winter, Il
lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, Il
Mulino, Bologna, 1998.
-
Antonio Gibelli, La Grande Guerra degli italiani. 1915 – 1918, BUR Storia, 2015
(prima edizione Rizzoli, Milano, 1998).
-
Emilio Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia
fascista, Laterza, Bari, 1993.
[1] Emilio
Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione
della politica nell’Italia fascista, Laterza, Bari, 1993, p. 27.
[2] Idem, p.
28.
[3] Eric J.
Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica
e identità personale nella Prima Guerra Mondiale, Il Mulino, Bologna, 1985,
p. 271.
[4] Ibidem.
[5] Antonio
Gibelli, La Grande Guerra degli italiani.
1915 – 1918, BUR Storia, 2015 (prima edizione Rizzoli, Milano, 1998), p. 335.
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