giovedì 12 luglio 2018

Gabriele D'Annunzio e l'impresa fiumana


Estate 1919. L’Italia del primo dopoguerra è scossa da un’ondata di scioperi ed agitazioni operaie, mentre sempre più si fanno sentire le spinte nazionaliste. In particolare, a fare molto rumore, sono le rivendicazioni territoriali sulle regioni al confine orientale promesse all’Italia dalle forze dell’Intesa con il Patto di Londra nell'aprile 1915. L’accordo segreto, firmato il 26 aprile, impegnava l’esercito italiano a scendere in guerra contro gli Imperi Centrali, durante la prima guerra mondiale, in cambio in caso di vittoria di cospicui compensi territoriali fra cui le province di Trento e Trieste, i territori circostanti quest’ultima e la Dalmazia.





Con la fine della guerra, dopo quattro anni di intensi combattimenti e milioni di perdite di vite umane, lo scenario internazionale era mutato profondamente. I’Impero austro-ungarico dopo la firma dell’armistizio (3 novembre 1918), si era sgretolato pezzo per pezzo, dando vita a nuove entità statuali. Fra queste il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni costituito dall'Unione della Serbia con il Montenegro e con i territori slavi del Sud dell'ex monarchia asburgica: la Carniola, la Croazia, la Dalmazia, la Slavonia e la Bosnia.  Alle trattative di pace di Versailles i rappresentanti italiani avevano dunque faticato a far valere le proprie pretese territoriali, dal momento che le regioni promesse non appartenevano più a un nemico sconfitto, ma a uno degli stati vincitori che si avviava a completare il proprio processo di unificazione nazionale. Incerto, inoltre, è il destino della città di Fiume che a maggioranza di popolazione italiana e dichiarata la volontà di unirsi al Regno d’Italia, era stata posta sotto l'occupazione in una forza militare interalleata in attesa di una destinazione definitiva[1].

Fra le voci nazionaliste che agitavano le folle italiane sull’argomento, indiscusso protagonista fu Gabriele D’Annunzio (poeta, romanziere, commediografo di grandissimo successo aveva già dominato la scena pubblica italiana durante la primavera del 1915, con infiammati discorsi bellicisti), che descrive la sfavorita situazione italiana nella Preghiera di Sernaglia, pubblicata sul «Corriere della Sera», con la famosa metafora di «vittoria mutilata».




 Una dura espressione per rimarcare come il governo italiano non fosse fino ad allora riuscito a far valere durante le trattative di pace gli interessi italiani e a far rispettare il Patto di Londra. Spinto dalla volontà di voler incarnare la figura del superuomo dei suoi discorsi, passa dalla teoria all’azione. D’Annunzio si reca così nel settembre 1919 a Ronchi, una cittadina nei pressi di Trieste, e si mette a capo di un movimento di ufficiali e truppe sediziosi con la quale marcia verso Fiume. Il 12 settembre 1919 entra nella città e fa allontanare il contingente interalleato. Il poeta costituisce così una «Reggenza» della città e del territorio circostante, di cui si pone a capo sotto il nome di «Comandante» e, investito di questo titolo, proclama l’annessione della città all’Italia.

Inizia così l’avventura fiumana del «vate», che durerà poco più di un anno, un esperimento diretto della propria filosofia del «superuomo» in cui si mescolano estetismo, decadentismo e narcisismo. Fiume diventa una sorta di «laboratorio» per la nuova politica della mobilitazione delle masse, basata sul mito e la liturgia della nazione. Il «Comandante» teneva entusiasmanti e carismatici discorsi dal balcone del palazzo del governo, incitato dalla folla sottostante che rispondeva all’unisono, segno di come la politica a Fiume assumesse una «dimensione totalizzante e collettiva»[2]. La città viveva «uno stato di perdurante baccanale» a cui D’Annunzio attribuiva l’immagine simbolica di «sovrarealtà», ovvero di realtà superiore[3].


Nei mesi successivi, i governi liberali di Nitti e Giolitti, tentarono di porre fine all’esperimento d’annunziano che rischiava di provocare gravi disagi al governo italiano a livello internazionale. Nel frattempo, la «Reggenza» si dotava di una propria Costituzione, la Carta del Quarnaro, il cui maggiore artefice è Alceste De Ambris. La Carta era un documento molto innovativo rispetto ai tempi poiché oltre a porre la propria l’attenzione sul principio dell’autogestione e della valorizzazione del lavoro produttivo, proclamava la sovranità del popolo indipendentemente da sesso, razza, lingua classe o religione e esprimeva il diritto per tutti all’istruzione, all’educazione fisica, all’assicurazione sulla vecchiaia, le malattie e la disoccupazione.





L’esperimento dannunziano entrava ormai nell’inverno 1920 nella sua fase finale. Il 12 novembre 1920, Giovanni Giolitti firmò con la Jugoslavia il trattato di Rapallo che attribuiva la Dalmazia alla Jugoslavia con l’eccezione della città di Zara, assegnata all’Italia, e faceva di Fiume una città libera.
Dopo un simile accordo il governo dannunziano diveniva un grave incomodo per il governo italiano e il suo presidente. Per questo motivo Giolitti, durante il Natale del 1920, diede l’ordine all’esercito regolare italiano di attaccare le forze della «Reggenza», per sgomberare Fiume e rispettare le norme del trattato. Per cinque giorni la città fu posta sotto assedio e sotto gli attacchi delle truppe regolari italiane. Il 28 dicembre D’Annunzio decise così di sciogliere la Reggenza e uscì indenne dalla città assieme alla maggior parte dei suoi compagni[4].
L’episodio che chiude la breve parentesi di governo dannunziano, verrà definito dallo stesso poeta come il «Natale di Sangue», durante il quale persero la vita ventidue legionari, diciassette soldati italiani e cinque civili.
L'operazione, tuttavia, non pone fine alle polemiche e l'opinione di sentimenti nazionali patriottici si convince anche di più del fondamento dello slogan della Vittoria mutilata e ritiene che il governo Giolitti e, in genere, i liberali non abbiano saputo difendere a dovere gli interessi nazionali.
Dopo questo episodio, la sorte della città di Fiume sarà segnata soltanto il 27 gennaio del 1924 con l’accordo bilaterale italo-jugoslavo definitivo, in cui Fiume venne assegnata all'Italia eccettuato l'entroterra, e infine con i Patti di Roma del 1927, siglati da Benito Mussolini e dal suo omologo jugoslavo Nikola Pašić. Secondo gli accordi il Trattato veniva ratificato e il problema fiumano veniva risolto con l'assegnazione all'Italia della città di Fiume e alla Jugoslavia di Porto Barros.


Bibliografia
  • Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, il Mulino, Bologna 2015
  • Ferdinando Gerra, L’impresa di Fiume. Dalla marcia di Ronchi all’aprile 1920, Volume primo, Longanesi & C., Milano, 1974.
  • Alberto Mario Banti, L'età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi, Laterza, Bari 2009.
  • Paolo Alatri, Nitti, d'Annunzio e la questione adriaticaFeltrinelli,  Milano 1976.




[1] Tale richiesta era stata formulata il 30 ottobre 1918 dal Consiglio nazionale di Fiume in forma di proclama, con cui la città veniva dichiarata unita all’Italia «in forza di quel diritto, per cui tutti i popoli sono sorti a indipendenza nazionale e libertà». Tale risoluzione veniva posta «sotto la protezione dell’America, madre di libertà e della democrazia universale».  Cfr. R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo: I’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 196; Ferdinando Gerra, L’impresa di Fiume. Dalla marcia di Ronchi all’aprile 1920, Volume primo, Longanesi & C., Milano, 1974, pp. 20-21.
[2] Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, il Mulino, Bologna 2015, p. 150-151.
[3] Ibidem.
[4] Giulia Cavalieri, Il "Natale di sangue", 2 febbraio 2009 , http://natalediguerra1.blogspot.com/2009/02/il-natale-di-sangue.html.

lunedì 9 luglio 2018

Turismo tra storia e serie tv



Era il 1995 quando uscì nelle sale cinematografiche il kolossal, di e con Mel Gibson, “Braveheart”. Nel 1996 il Wallace Monument, torre eretta sulla cima dell’Abbey Craig a nord di Stirling a commemorazione dell’eroe nazionale scozzese William Wallace, registrò circa 200.000 visite rispetto alle 30.000 degli anni precedenti. 



Negli anni a venire molti altri libri e pellicole hanno spinto migliaia di turisti provenienti da tutto il mondo alla scoperta dei luoghi che hanno fatto da scenario alle storie che li hanno appassionati. Basti pensare alla Rossylin Chapel che, grazie al successo mondiale del romanzo “Il codice da  Vinci” di Dan Brown, vide aumentare le viste del 72%  nel 2004 e un ulteriore aumento si ebbe in seguito all’uscita dell’omonimo film con Tom Hanks nel 2006. 

Dopo quasi 20 anni da Braveheart, la Scozia sta vivendo una nuova ondata di turismo dovuta al forte impatto della serie della Starz “Outlander”. La serie ha debuttato nel 2014 ed è ispirata all’omonima serie di libri di Diana Gabaldon che ha come protagonista Claire Beauchamp Randall Fraser, una donna del XX secolo che si ritrova catapultata indietro nel tempo nella Scozia del 1743; tra storia, avventura e fantasy Claire assisterà in prima persona agli avvenimenti del passato al fianco dell’highlander Jamie Fraser con cui vivrà una profonda ed intensa storia d’amore. Si può parlare proprio di un “effetto Outlander”  quello che da quattro anni a questa parte porta ormai centinaia di migliaia di turisti nei luoghi che ospitano la storia d’amore al di là del tempo e dello spazio tra Claire e Jamie.



La Scozia ha da sempre avuto una particolare attrattiva grazie ai suoi meravigliosi paesaggi naturali, i numerosi castelli e la sua capitale Edimburgo. Dopo l’enorme successo della serie l’attenzione si sta lentamente spostando verso le Highlands e i luoghi storici legati alla seconda ribellione giacobita del 1745, che mise fine alla cultura dei clan scozzesi. Tra le mete che meritano particolare attenzione per il forte incremento dell’attività turistica spiccano Doune Castle (+91.8%), Blackness Castle (+85.5%) e Glencoe Visitor Centre (+53%).



Per capire la portata di tale fenomeno basta fare un giro sul portale VisitScotland.com che ha dedicato molta attenzione alla serie con un’intera sezione e proponendo addirittura un itinerario di dodici giorni, durante i quali è possibile visitare i luoghi antichi e reali che hanno ispirato i set della serie e dei romanzi. La mappa è stata scaricata centinaia di migliaia di volte senza contare le oltre 24.000 copie cartacee distribuite. Si parlava non a caso di effetto Outlander, no?

Lo stesso capo esecutivo di VisitScotland, Malcolm Roughead, ha ammesso che la Scozia è davvero mozzafiato nella serie e che non lo stupisce affatto tutto questo interesse.  Ma non finisce qui perché grazie all’impatto della serie molte più persone scelgono di trasferirsi e lavorare nelle Highlands tanto che è stato aperto il Rural Tourism Infrastructure Fund. Insomma, la Scozia sta vivendo da qualche anno un vero e proprio boom turistico che ha dei risvolti positivi per tutta la nazione ed è ovviamente qualcosa su cui puntare per il futuro.

E voi, siete mai stati spinti a partire e viaggiare per vedere dal vivo i paesaggi di un film o serie televisiva?

lunedì 2 luglio 2018



Aldo Moro, 40 anni dopo. L'eredità di una tragedia politica italiana


« Giovedì 16 marzo, un nucleo armato delle Brigate rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. La sua scorta armata,  composta da cinque agenti dei famigerati corpi speciali, è stata completamente annientata. Chi è Aldo Moro è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino a oggi il gerarca più autorevole, il teorico e lo stratega indiscusso di questo regime democristiano che da trenta anni opprime  il popolo italiano. Ogni tappa che ha scandito la controrivoluzione  imperialista di cui la Dc è stata artefice nel nostro Paese – dalle politiche sanguinarie degli anni Cinquanta alla svolta del centrosinistra fino ai giorni nostri con l'accordo a sei – ha avuto in Aldo Moro il padrino politico e l'esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste. »

(Brigate Rosse, primo comunicato)




E’ il  9 maggio 1978 quando viene trovato in una Renault rossa in via Caetani a Roma, dietro la sede delle Botteghe Oscure del Partito Comunista e a poca distanza da quella della Democrazia Cristiana a Piazza del Gesù, il cadavere dell’onorevole Aldo Moro , presidente della DC.
L’uccisione dello statista italiano arriva dopo la brutale aggressione del 16 marzo, in cui perdono  la vita cinque agenti della scorta in via Mario Fani, da parte di un commando armato  delle Brigate Rosse e che per  i 55 giorni di prigionia del presidente tiene con il fiato sospeso  l’Italia intera.

Il rapimento, avvenuto a poche ore dal dibattito a Montecitorio sulla fiducia al quarto governo Andreotti  e alla vigilia del voto parlamentare che  per la prima volta dal 1947  sancirebbe l’ingresso del Partito Comunista nella maggioranza di governo, deve “processare” l’uomo politico e, attraverso lui, tutta la Democrazia Cristiana e tutto il sistema politico italiano di quegli anni.




Lo scopo del rapimento è infatti quello di indebolire e colpire il partito che in Italia è in quel momento il più forte, la Democrazia Cristiana, e che secondo le Brigate Rosse rappresenta  l’asse dello stato imperialista delle multinazionali, fermando contemporaneamente l’ingresso del Partito Comunista Italiano  nelle istituzioni con il “compromesso storico” al quale lavora da tempo proprio Moro.

Il clima politico di quegli anni verrà identificato con l’espressione “ anni di piombo” che comprendono il periodo tra  la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, anni  durante i quali le Brigate Rosse impongono alla popolazione con atti violenti la loro visione politica del Paese  e al Partito Comunista di  continuare la battaglia violenta e rivoluzionaria per  abbattere il capitalismo. 
Questa situazione  porterà il confronto politico di quegli  anni ad una deriva violenta,  manifestandosi con atti di terrorismo e violenze di piazza, traducendosi nella strategia della tensione che mira  alla destabilizzazione degli equilibri precostituiti e che trova nella lotta armata la sua più violenta espressione.

In quella che sarà definita la  prigione del popolo  di Aldo Moro si verificheranno nei giorni della detenzione molte  anomalie e  strani episodi ancora oggi non irrisolti e che contribuiranno nel tempo  a far diventare il caso Moro una delle pagine più nere della politica italiana,  rappresentando una battuta d’arresto nel percorso della storia della Repubblica Italiana verso la democrazia che la lungimiranza di Aldo Moro aveva cercato di accelerare attraverso una politica di avvicinamento al Partito Comunista  guidato da Enrico Berlinguer.




La grande intuizione di Aldo Moro che coglie prima degli altri,  probabilmente troppo presto e in un contesto geopolitico ancora acerbo, il tramonto di un’epoca, quella della Guerra Fredda,  appare oggi come uno dei maggiori  momenti di intensa attività politica fatta con coraggio e orgoglio  dal presidente  barbaramente ucciso per quella che allora fu indicata come una fantomatica ragion di stato e a cui venne negato, da parte dello Stato che lui generosamente serviva, la giustizia e la difesa in tutte le forme.

Gli stessi atteggiamenti di Francesco Cossiga, allora ministro dell’Interno in carica  e di Benito Zaccagnini, segretario della DC, nasconderanno, dietro alla linea dura da tenere nei confronti delle Brigate Rosse usata in modo strumentale,   la volontà di impedire la liberazione dello statista rapito attraverso contatti con l’organizzazione paramilitare denominata “Gladio”, promossa dagli USA attraverso la Nato per impedire la crescita del Comunismo nei paesi dell’Europa Occidentale, e con i servizi segreti. 
Fatti per i quali oggi  in molti concordano nel sostenere che l’uccisione di Aldo Moro sia stata pilotata dallo Stato Italiano su pressione degli Usa, ipotesi confermata a quaranta anni dalla scomparsa del presidente della Dc dai molti dubbi sul ruolo della politica di quegli anni in questa oscura vicenda scaturiti da nuove indagini postume.

Di quei giorni resta la memoria collettiva della levatura morale, dell’onestà intellettuale  e della profonda umanità dell’uomo politico e del padre di famiglia e che lo stesso Moro più volte esprimerà  nelle molte lettere scritte principalmente ai suoi cari  e alla moglie durante la sua prigionia. 

E che restano oggi un esempio e un insegnamento unico nel panorama politico italiano.




“Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte mia dolcissima, in questa prova assurda  e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo”.



Bibliografia

Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, ed. Einaudi

Ferdinando Imposimato, Sandro Provvisionato, Doveva morire. Chi ha ucciso Aldo Moro, ed. Chiare Lettere 

http://www.fisicamente.net/MEMORIA/index-1129.htm



La Battaglia di Narita: una storia dimenticata






     Chi voglia raggiungere per via aerea Tokyo, la capitale della terza economia mondiale, con ogni probabilità si troverà ad atterrare nell’aeroporto di Narita, il più grande del paese ed uno dei più trafficati del pianeta. Locato a più di 60 chilometri dalla megalopoli nipponica Narita apparirà all’anonimo viaggiatore come una vera e propria cattedrale nel deserto, un enorme blocco di cemento svettante in mezzo ai rigogliosi campi della prefettura di Chiba. Espressione ideale di ciò che l’antropologo francese Marc Augé definisce “nonluogo”, Narita appare assumere senso esclusivamente in quanto passaggio obbligato per raggiungere la distante capitale. Decine di milioni di persone ogni anno attraversano i suoi gate totalmente ignari della storia di quei luoghi a tutta prima così anonimi, identici a migliaia d’altri. Eppure la storia di quell’aeroporto e delle terre che lo circondano sono tutt’altro che comuni, anzi si potrebbe quasi dire rappresentino un unicum nella storia giapponese recente, una vicenda eccezionale e che pur, forse non casualmente, così pochi conoscono. Di questa vera e propria epopea furono protagonisti lo Stato giapponese ed un’eterogena quanto agguerrita lega di contadini e militanti dell’estrema sinistra giapponese, due entità dal peso specifico imparagonabile e che pur si videro contrapposte per più di un lustro in un’estenuante battaglia. Motivo del contendere fu proprio il nuovo aeroporto, o meglio, i terreni scelti per la sua edificazione. Tutto ebbe inizio nel 1965 quando un’apposita commissione ministeriale selezionò l’area a nordest dei villaggi Sanrizuka e Shibayama quale sede ideale per il nuovo hub della capitale. Alla base della scelta la convinzione che sarebbe stato facile ottenere i vasti terreni necessari alla costruzione di quello che nei piani doveva essere un monumento al boom economico che proprio in quegli anni stava toccando il paese. E così forse sarebbe stato se il governo del tempo non avesse sottovalutato l’orgoglio dei più umili tra i suoi cittadini, quei contadini che ritenne superfluo informare del progetto in corso. Passò un anno, il progetto venne annunciato a mezzo stampa ed è proprio tramite giornali e tv che gli ignari agricoltori scoprirono il futuro che si era pensato per loro. Si riteneva infatti, nelle stanze del ministero dei trasporti, sarebbe bastato offrirgli un compenso, che insomma non occorresse darsi troppo pensiero. Ma i contadini, oltraggiati da tanta noncuranza, decisero di opporsi a quella decisione prima appellandosi alle autorità locali e poi, vistisi inascoltati, decidendo di presidiare i terreni così da impedirne l’esproprio. In loro sostegno giunsero dalla città un gran numero di formazioni di estrema sinistra, tra questi in particolare i militanti del gruppo extraparlamentare Chūkaku-ha (altrimenti nota come “Lega Comunista Rivoluzionaria, Comitato Nazionale”) e gli studenti dello Zengakuren (contrazione di “Federazione dell'Autogoverno Studentesco del Giappone”), entrambi d’ispirazione comunista, coi quali gli agricoltori formarono l’Hantai Dōmei o “Lega di Sanrizuka e Shibayama Contro l’Aeroporto”. A muoverli, oltre l’ovvia solidarietà per la causa contadina, il desiderio di prevenire un possibile uso futuro della struttura da parte delle forze armate americane,  la cui massiccia presenza sul suo giapponese questi gruppi combattevano ormai da più di un decennio. Col sostegno dei più esperti attivisti i contadini dichiararono una lotta senza quartiere al progetto ormai in via d’attuazione. L’opposizione all’aeroporto divenne per questa volenterosa compagine un affare a tempo pieno, condotto con una ferrea determinazione di stampo quasi militare. Si eressero fortini,  fossati e trincee vennero scavati, bloccate le strade e addirittura costruita una torre d’osservazione (divenuta poi vero e proprio simbolo di quella lotta): ogni misura fu presa al fine d’impedire l’inizio dei lavori, previsti per il 10 Ottobre del 1967. Qual giorno giunsero dalla città gli operai intenti a fare i primi controlli e con loro più di 2000 uomini della Kidō-tai, la temibile unità anti-sommossa della polizia giapponese.  






   Lo scontro fu talmente violento da cambiare per sempre il volto di una protesta fino a quel momento relativamente pacifica. Tomura Issaku, commerciante cristiano della zona e leader dei contadini, rimasto gravemente ferito negli scontri, individuò successivamente nel dispiegamento di quelle unità la ragione del definitivo salto di qualità che di lì a poco avrebbe preso la lotta dell’Hantai Dōmei. La guerra era ormai definitivamente scoppiata, né le autorità né i contestatori avrebbero mai retrocesso, si trattava dunque soltanto di vedere chi avrebbe resistito più a lungo e a quale costo. Prendeva allora il via ciò che le cronache chiameranno con lo scabro nome di Sanrizuka TōSō (Lotta di Sanrizuka), un conflitto destinato a durare ancora per lunghi anni e che da lì a poco comincerà a reclamare le proprie vittime. Anno 1971, partirono i primi espropri, il comando delle operazioni passò dal governatore del Kantō (la regione di Tokyo) alla più risoluta direzione aeroportuale, la quale chiese misure ancora più rigide contro i contestatori. Nel settembre di quell’anno giunsero a sostegno di un nuovo turno di espropri l’impressionante cifra di 5000 poliziotti anti-sommossa, tre dei quali perderanno la vita durante la fase più cruenta degli scontri. Fu certo il momento più tragico di un conflitto il cui destino era già da tempo irrimediabilmente segnato.




                                          Kazuo Kitai, I bambini del corpo di resistenza,  1970




   Gli anni successivi vedranno un progressivo militarizzarsi dell’area, ormai realmente divenuta una specie di zona di realtà parallela rispetto al resto del paese, un perpetuo campo di battaglia oggetto da parte dei contestatori di sempre nuovi e rocamboleschi tentativi di sabotaggio. Nonostante il dispiegamento di forze di polizia ormai avesse raggiungo quasi le diecimila unità, gli oppositori riuscirono comunque a danneggiare le strutture e disturbare i lavori tanto da far slittare l’inaugurazione della struttura alle soglie del nuovo decennio. Non bastarono neanche delle leggi speciali create ad hoc al fine di rendere ancora più dure le punizioni e più semplici gli espropri per scoraggiare quanti ancora resistevano tra i contadini e gli studenti. Dopo più di dieci anni dall’inizio dei lavori l’aeroporto verrà inaugurato nel 1978, senza però che i lavori fossero stati completati.  Del progetto iniziale infatti soltanto una delle tre piste previste era stata effettivamente realizzata. La seconda verrà poi costruita, dopo una nuova quanto effimera riapertura delle ostilità, nel 1980, la terza invece rimarrà sulla carta, forse proprio a causa dei costi che l’imprevista quanto strenua opposizione dei contadini fece lievitare tanto da diventare anti economica. Ed è certo questa l’unica, quanto parziale ed amara, vittoria di quegli uomini e donne che non vollero accettare di vendere la propria dignità in nome di una ben parziale quanto cinica idea di progresso. La memoria della loro simbolica lotta rimane oggi custodita dai pochi ancora in vita e da piccoli gruppi che ancora si ostinano a commemorare quella stagione di lotte. Ulteriori tracce permangono nel quasi dimenticato lavoro di un grande documentarista, Ogawara Shinsuke, maestro del “cinema verità” nipponico, che passò alcuni anni in compagnia dei contadini di Sanrizuka, documentandone la lotta della quale condivideva motivi ed aspirazioni.  Al di là di queste sparute testimonianze e dei campi della prefettura di Chiba non sopravvisse il ricordo di quella stagione, non declinabile com’era allo Zeitgeist di un paese al tempo così preso dalla marcia forzata del progresso da non poter concepire alcuna forma di dissenso. 

Riferimenti bibliografici e videografici:

-          - William Andews, Dissenting Japan: A History of Japanese Radicalism and Counterculture, from     1945 to Fukushima, Hurst & Co Ltd, 2016
-         -  Ogawara Shinsuke, Summer in Narita, 1968 https://www.youtube.com/watch?v=HvoUgAx4sLc



sabato 30 giugno 2018

Il calcio dei ginnasti


 Chi si è occupato di storia dello sport in Italia negli ultimi due decenni ha ampliato la prospettiva di studio sulle origini del calcio, ponendo l’accento sulla diffusione del gioco in regioni prima ignorate. Alla fine dell’Ottocento, negli stessi anni in cui il meraviglioso giuoco appariva nelle città del triangolo industriale, dai paesi mitteleuropei il calcio era arrivato anche nel Nord-est.

 Dietro la diffusione  “orientale” del calcio c’era il movimento ginnastico italiano, che aveva fame di rinnovamento, e guardava al modello anglosassone di educazione sportiva basato sui giochi all’aperto, tra i quali appunto il calcio. Questi giochi vengono introdotti nell’insegnamento dell’educazione fisica nel 1893 accanto ai tradizionali esercizi ginnici. Protagonista della riforma è il senatore Gabriele Pecile, che era stato sindaco di Udine, dove nel 1892 si era creata la prima “palestra aperta” in Italia, il primo campo di giuochi. È lo stesso senatore Pecile a tradurre i manuali di gioco dal tedesco e dall’inglese e a pubblicare nel 1895 il giuoco del calcio (football)-regole adottate nel campo dei giuochi di Udine. Nello stesso anno esce un altro manuale ad opera di Francesco Gabrielli, un maestro bolognese di educazione fisica che insegna a Rovigo. Sono i primi manuali calcistici in lingua italiana. Una volta pubblicati, i manuali iniziano a circolare e in molte parti d’Italia le associazioni ginnastiche si aprono al nuovo gioco, assumendo un ruolo fondamentale nella nascita e nella promozione del football. Intanto la Federazione Ginnastica Italiana (FGNI) organizza i grandi concorsi nazionali ginnastici. Tra un concorso e l’altro, si disputano i campionati interregionali e interprovinciali. Nel concorso interprovinciale ginnastico di Treviso viene indetto il primo torneo di football: vincono proprio i ginnasti di Udine davanti alla squadra della Palestra Ginnastica Ferrara e ad un’altra composta da liceali trevigiani. Siamo nel settembre del 1896. La Ginnastica Udinese vince questo titolo due anni prima di quello messo in palio dalla FIF, vinto dal Genoa, l’8 maggio a Torino: quello che viene da sempre considerato come il primo campionato di calcio. Il titolo udinese testimonia il radicamento e lo sviluppo che conosce il calcio nella città friulana e dimostra che la pratica del calcio in origine non per forza va a braccetto con l’evoluzione della società industriale: alla fine dell’Ottocento Udine infatti è ancora distante dall’essere una città moderna e industriale.

 In che modo il calcio dei ginnasti era diverso  da quello patrocinato dalla FIF (che di lì a poco prenderà il nome che tutti conosciamo, FIGC)? Per i primi anni si registra un po’ di confusione, per via di traduzioni approssimative dei codici che venivano dall’estero. Un regolamento definitivo il calcio ginnastico se lo dà grazie a Luigi Bosisio, che il 16 gennaio del 1903 pubblica su La Gazzetta dello Sport il nuovo regolamento del calcio. Un aspetto importante riguarda l’arbitro: rispetto al Codice Gabrielli Bosisio dà più centralità al giudice di gara, le cui decisioni sono inappellabili. Tutto sommato la differenza vera riguardava la durata della partita: i ginnasti giocavano due tempi da trenta minuti mentre i footballer due da quarantacinque minuti. Differenze concrete di gioco non c’erano con il calcio dei club affiliati alla FIF, ma diverso era l’approccio con il quale ci si metteva a giocare. Ai ginnasti più del risultato interessava come si eseguiva il gesto tecnico; e infatti i tornei calcistici che si svolgevano durante i Concorsi erano divisi in due tipi di partite: di classificazione e di campionato. Nelle gare di classificazione i ginnasti-calciatori erano chiamati a mostrare le loro abilità ed erano valutati dalla giuria per come eseguivano il gesto tecnico. La giuria valutava anche il comportamento e il contegno che i ginnasti avevano nei confronti di compagni, avversari e degli stessi giurati. Ai ginnasti era dunque richiesto il rispetto del codice etico e non solo di quello che riguardava il gioco.   

In questo quadro va collocato il titolo del 1896 di cui l’Udinese rivendica l’assegnazione, che nel caso venisse riconosciuto, diventerebbe il primo scudetto  della storia del calcio italiano.

Bibliografia

Antonio Papa, Guido Panico, Storia sociale del calcio in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002
Stefano Pivato, Il football: un fenomeno di frontiera. Il caso del Friuli Venezia Giulia, in Italia Contemporanea, 1991/183
Marco Impiglia, Il calcio dei ginnasti, in Memoria e ricerca, 27/2008
Sergio Giuntini, I calciatori delle palestre, Bradipo Libri, 2011


mercoledì 27 giugno 2018

Casa di Colón - Un pretesto di valorizzazione storica

Casa de Colón

Il quartiere di Vegueta, a Las Palmas de Gran Canaria, è un luogo caratteristico e, a suo modo, pieno di storia. Corrispondente al nucleo originario fondato nel 1478 dal conquistatore Juan Rejón con il nome di Real de Las Palmas, il quartiere si distingue per le tipiche abitazioni in stile canario: generalmente su tre piani, con uno o più patii interni e caratteristici balconi di legno coperti. Tra queste, a pochi passi dall'imponente Cattedrale di Sant'Anna, una spicca tra tutte per la sua storia. Si tratta della Casa del Gobernador, famosa per aver ospitato Cristoforo Colombo durante le sue soste lungo il viaggio per il Nuovo Mondo. È per questo che oggi il suddetto palazzo appartiene al complesso architettonico che prende il nome di Casa de Colón. Il passaggio di Colombo dall'Arcipelago delle Isole Canarie non fu un evento casuale; l’Arcipelago, infatti, è situato in una posizione che agevola la navigazione verso l’occidente grazie ai venti alisei e alle correnti marine. È proprio per questo che, a partire dal 1500, queste isole divennero un punto di sosta strategico per tutte le navi che facevano rotta verso le Americhe, dando vita ad un fiorente scambio di tipo sociale, culturale ed economico. Tuttavia le isole dell'arcipelago canario non rappresentano, nel corso dei secoli, solo un semplice luogo di passaggio nella Carrera de Indias, ma costituiscono anche il punto di partenza di molti flussi migratori che hanno fatto guadagnare alle Isole Canarie il soprannome di Hacedor de Pueblos, Creatrici di Popoli. Nel 1940, durante il mandato del Presidente Matìas Vega Guerra, il Cabildo de Gran Canaria decise di ristrutturare il palazzo, avvalendosi dei servigi dell’architetto Secundino de Zuazo Ugalde, per destinarlo ad un museo che è ancora oggi noto con il nome di Casa museo di Cristoforo Colombo.

Il Museo, inaugurato nel 1951 e poi successivamente ampliato in varie tappe negli anni seguenti, nasce con il duplice intento di ricordare sia il vincolo dell’isola con le gesta colombiane, che il divenire storico e culturale di tutti i “paesi fratelli d’America”.  È formato in totale da tredici sale divise su tre piani, organizzate tuttavia in un percorso non del tutto chiaro che tende a confondere il visitatore più distratto. All'ingresso viene effettuato un censimento statistico sulla nazionalità degli avventori, poi si ha accesso alla prima sala, che riproduce l'interno di una delle caravelle di Colombo, per la precisione quella che riparò durante il suo primo viaggio nel 1942, la Nina. 
La Nina
 Sempre all'interno di questa prima sala è possibile ripercorrere questo e gli altri viaggi del navigatore genovese attraverso dettagliate carte geografiche fino a giungere nella sala in cui si affronta quello che sembra essere il vero tema del museo: la posizione strategica dell'arcipelago come crocevia di popoli e culture. Si tratta di sale in cui è possibile consultare le carte dei viaggi verso il continente americano a partire dal 1500 ca.; centro di sosta nevralgico per tutte le navi da e per le Americhe, le Isole Canarie conservano, infatti, anche numerosi reperti dei “Paesi fratelli d'America” esposte nella cripta sotterranea, raggiungibile dopo aver attraversato la sala delle pitture rinascimentali e fiamminghe. La presenza di queste opere d'arte all'interno del museo intende essere testimonianza di quella spinta propulsiva che, grazie al Rinascimento italiano e alla lungimiranza dei sovrani spagnoli, ha dato luogo ai viaggi verso il Nuovo Mondo. Al di là del contenuto strettamente espositivo, discutibile su più di un aspetto, questo museo rappresenta un ottimo spunto di riflessione su come un singolo evento possa diventare il pretesto per valorizzare un intero patrimonio storico, in questo caso legato al territorio. 
Isola di Gran Canaria
Il percorso museale, infatti, sembra essere lo specchio dell'orgoglio che il popolo canario nutre nei confronti della cultura e del territorio dell'Isola; sarà per questo che le sale dedicate alle riproduzioni dell'isola di Gran Canaria e della città di Las palmas sono sicuramente quelle più curate e meglio riuscite. Molto più interessante l'aspetto storico/architettonico: il museo, infatti, ha sede in una delle case più tipiche ed antiche della città, di solito adibite ad abitazioni private.
Interno Casa de Colón

Sebbene non si tratti di certo di uno dei migliori esempi di comunicazione storica a nostra disposizione e nonostante la mancanza di un filo conduttore che conferisca una certa uniformtà, visitare la Casa de Colón è un'esperienza che permette di entrare a contatto con la storia dell'isola, dei popoli che l'hanno abitata o che sono passati di lì e, più in generale, con lo spirito di chi la abita ancora oggi. 







Bibliografia e sitografia:

1. P. Chaunu, L'America e Le Americhe. Storia di un continente. Edizioni Dedalo, Bari, 1993.
2. http://www.casadecolon.com/
3. http://www.laspalmasgc.es/es/